Saggio su Pietro Pancrazi (1940)

«Letteratura», a. IV, n. 2, Firenze, aprile-giugno 1940, pp. 118-126; poi ripubblicato in W. Binni, Poetica e poesia. Letture novecentesche cit.

Saggio su Pietro Pancrazi

Oscilla la comune pratica della critica fra l’esemplarità di un assoluto giudizio che valendosi della conoscenza delle coordinate storiche dell’autore vuol cogliere il valore intrinseco libero da ogni aggregato sentimentale, moralistico, o di semplice gustosità, e la vita di una approssimazione letteraria contenta di una sua sicura provvisorietà, che la libera da un assillo di conclusione a formula e le apre una sua strada ad equivalenze letterarie e magari ad autonome creazioni. Verso la seconda tendenza tanto piú genuina è la vocazione dei critici che hanno una primaria disposizione a considerare direttamente le cose, la natura, la vita e che il gusto di viaggi spirituali basano su proprie esperienze. E non si creda che quando la lettura è appassionata, debba sparire il gusto della critica in sé e per sé e magari non si riveli d’un tratto anche lo scrupolo di definire e giudicare perentoriamente, ma certo la pagina si riscalda e si armonizza quanto piú può tendere ad un discorso libero da una traduzione obbligata in formule, e a dar vita a un libero senso di sé e della propria esistenza. E tanto piú un tale temperamento critico si convalida nella lettura se una precisa fedeltà lo lega ad un paese ideale, ad una civiltà che si può rivivere in ogni civiltà facendosi categoria umana e pur serbando il senso di un concreto possesso. Pancrazi s’è riconosciuto scrittore e lettore, per un suo primo e durevole amore alle cose di cui non ci restano tanto documenti giovanili, quanto la sua presenza come di elemento maturato con l’uomo fuori di ogni consiglio di scuola. Perché sarà bene chiarire subito la situazione culturale, che per Pancrazi si limita ad un costeggiare indipendente il passaggio dalla «Voce» alla «Ronda», risentendone la passione della prosa e pure il bisogno del concreto spirituale, ma non del problema, sí della struttura, al riconoscimento del magistero crociano (ma soprattutto il Croce della Letteratura della Nuova Italia), senza però nessuna traccia di scuola crociana: d’altronde un’aria svelta, da giornalista, senza però influenze precise del côté giornalistico. E bisogna ammettere che non c’è attacco riconosciuto e riconoscibile in Pancrazi e che, se lo vedremmo volentieri vicino a Baldini, non possiamo negargli di discutere con Papini la scelta dei Poeti d’oggi, cosí che ce lo figuriamo sempre socievole e sempre isolato, senza lunghi debiti e senza pretesa di crediti.

«C’è ancora chi crede allo spirito uno e solo, a ciascuno. In cima al nostro pensiero, al sentimento intimo della vita che forse è religioso c’è la persona. Il bene e il male, il dolore e la gioia sono di ciascuno, sono del noto; non dell’ignoto e di tutti». Tale senso della personalità e della vita piena del proprio significato umano e sovrumano, senza misticismi e senza aldilà spaziali e giudiziari, forniva fin dall’inizio al critico una sua sicura andatura e una sua libertà dai libri come tali e dall’avventura come tale, che preludeva al suo amore d’uomo per la letteratura che rinsaldava la sua terra e la sua epoca ideale. «Ho creduto di sentire la vita piú in là... vorrebbero queste pagine agli amici indicare, dinnanzi alle espressioni dell’ultim’ora spirituale, non un atto affermativo o negativo, ma un gesto semplice verso la vita». È con questo credo che si iniziava il colloquio di Pancrazi col mondo letterario e si determinava il suo atteggiamento di equilibrio consapevole di una aderenza alla vita oltre gli equilibri borghesi e le appassionate cariche dei partiti letterari. Parole che troviamo nel raro libretto Di Ca’ Pesaro e d’altro che per la sua data (1913) (e che Pancrazi lo senta come momento necessario e forse amato nel suo sviluppo lo dimostra la cura con cui sempre ritorna nell’elenco delle sue opere a capo di ogni nuovo lavoro) indica quanto di solito sfugge nelle facili recensioni. C’è in quel libretto giovanile una posizione polemica che sorprende chi si è abituato all’immagine solita di un Pancrazi non impegnativo e quasi sornione, ma che conforta a sentire anche in un sorriso e in un forse, piú che incertezza, un fondo ingenuo superato che insapora la chiarezza, c’è una vena irruenta, una dichiarazione alla vita che resta per noi, a notare nell’amore della semplicità, una vittoria sull’estetismo e insieme un limite alla comprensione della poesia contemporanea che nasce piú da Mallarmé che da D’Annunzio. È proprio con meraviglia che si legge l’Elogio della vita intera in cui si innalza un inno alla strada che sembra una parodia dannunziana con un certo accomodamento pascoliano, rialzato da una immaginosità automatica quasi futuristica. «L’ultima casa presso il ponte, tra due finestre ferme come palpebre abbassate, reggeva il braccio corto dell’ultimo lampione, non spento, ma infocato di rosso, senza luce, come una pipa». Quasi un’eco delle Città terribili e del Zarathustra, ridotto nei termini contiani-dannunziani, ci incoraggia a indicare tutto il cammino percorso da Pancrazi, ma anche positivamente l’impegno colorato esteticamente ad un’humanitas di società cittadina come correttivo dell’aura di lettura campagnola degli anni futuri. «Penso alla strada che non conduce a nessuna porta... Solo i forti amano e affrontano la strada per dominarla. Soltanto i deboli e gli impotenti, cercano la solitudine altrove...». C’è poi una difesa della cultura e una limitazione della vera cultura che resterà da allora sottintesa anche se ristretta in certezze particolari e in diffidenza della sua stessa proclamazione in ogni scritto di Pancrazi. «Cultura nel suo valore spirituale non vuol dire raccolta di cognizioni piú o meno ampia; cultura è quell’atteggiamento di prontezza che lo spirito assume per l’abitudinario sforzo di apprendere; la cultura va al di là della scienza», ultima affermazione che, tolta dal bagno estetistico in cui tutte queste parole sono calate, può additarci un umanismo istintivo e rinforzato dall’esperienza idealistica che contraddistingue ancora il fondo appassionato di Pancrazi. E cosí sempre scarnendo le affermazioni di quella fase polemica dalla loro pompa di novità e di volontà, la denuncia di un equivoco dell’incultura e nello stesso tempo la proposta di intenzioni (la parola è ormai pancraziana) di equilibrio, di classicismo non gravinistico, di eternità, non di modernità dell’arte, precisano di nuovo i punti di partenza della sua critica, il suo superamento personale e laterale della nuova querelle, la sua sfiducia nell’intervento intellettualistico dei programmi, dei movimenti, delle scuole, che lo mettono accanto allo svolgimento «Voce-Ronda» come correttivo del lettore e dell’uomo che ama l’espressione fuori di ogni bando, purché intera ed armonica. Tutte le combattute affermazioni dell’epoca a lui contemporanea sono prese nuclearmente e semplicemente risolte con la fede nella poesia come prodotto di umanità superiore e cosciente («la cultura non si abolisce con un frego, ma, verso la creatività originale, si supera con lo spirito»), come creazione della personalità non avulsa dal suo tempo, ma liberata dall’accumularsi delle parole provvisorie delle scuole, delle lotte («E poi? Dieci, vent’anni di attacco, di suoni, di trombe, di gridi, di scoperte ipotetiche. E poi?...»), fuori da una collaborazione contrattuale («Solo i veri anarchici si salvano, e sono per definizione i solitari. E fanno le grandi rivoluzioni...»). Con questa fede Pancrazi iniziava esplicitamente quella duplice e contemperata battaglia contro i moderni e contro la stessa polemica che abolirà, in una specie di repubblica dei buoni scrittori in cui non si chiede età e professione, ma in cui si suppongono capaci di tale scortesia coloro che esigono il distintivo della modernità ad ogni costo: «Ci sono tre correnti di pensiero che rodono piú che non irrighino fruttuosamente la vita spirituale dell’ultim’ora. L’intuizione in filosofia, in arte il postimpressionismo fino al futurismo, in poesia il futurismo». Ecco in parole giovanili ciò che dalla polemica antifuturistica si allargherà a dissenso da ogni moda modernistica (la parola vive qui in una derivazione da moda) e persino da ogni tentativo che superi l’ambito di una scrittura concretamente italiana. Perché se è solo di quel momento la ricerca di una sicura tradizione italiana (donde l’errata visione di una decadenza francofila), ricade però in tutta la sua attività posteriore la certezza di una linea eretica che la sua intelligenza non isola, ma che il suo gusto sistematicamente rifiuta, a parte le derivazioni e le basi filosofiche, come ermetismo. La testimonianza discorsiva di questa che chiamiamo reazione solo nel senso bonario e dignitoso della parola, partita da una opposizione al futurismo e alle scuole, ampliatasi in un senso censorio del gusto e della personalità, ci avvia a riconoscere meno empiricamente le qualità critiche pancraziane.

Ma prima importa scoprire l’attacco dello scrittore con le cose precedentemente alla loro astrattizzazione, al loro diventar simbolo e realtà superiore, trovare per quali ragioni Pancrazi si induce a scrivere e a criticare gli uomini e le loro espressioni dopo aver preso contatto con l’oggetto universale ed eterno delle loro passioni. Egli si avvicina con cautela alle cose, non si veste del loro alone, ma lascia agire il rapporto che ne nasce tra loro e la sua umanità: «Quadrata e perfetta, affabile e metafisica (la piazza di Todi): le pietre, i piani, le luci vi si accordano come fuori del tempo. Pare all’uomo, passeggiandovi, che anche i suoi pensieri gli si squadrino meglio in mente, che le idee gli piglino miglior sesto». Si misura dalle loro proporzioni una raccorciata mappa ideale in cui lo scrittore colloca senza sentimentalismo la sua presenza. Tranquillamente si tiene sui limiti dell’ipotetico che per lui resta un incognito indesiderato e di cui non manca una bizzarra traccia che fa pensare al demonico etrusco che vibra in ogni terrenità toscana: «L’insistenza del cicerone che mi segue da tempo perché mi valga della sua scienza, adesso mi fa piacere. Conducimi in giro; finché parli tu (pensavo) resterò sempre con un piede fuori dell’eterno» (Nel Camposanto di Pisa). Perché le cose gli si presentano nella loro semplicità che non chiede adesioni, ma presuppone la massima certezza naturale e una fede spontanea, come una canzone di cui non ci chiediamo il valore, ma che misuriamo cantandola. Se la certezza di un mondo tutto umano e organicamente proporzionato invita Pancrazi ai viaggi senza ombra di romantica ricerca, per amore del concreto, della haecceitas, prepara anche a lui toscano l’estensione di un «paese» toscano a patria della realtà piú sicura ed intera. Non che ci sia regionalismo né astratta motivazione di un primato alla Benda (toscano come esperanto), ma questo misurato scrittore ritrova in quella regione ricca di sensi naturali ed intellettuali, di riferimenti civili e creativi, la terra di un eterno umanesimo, di un classicismo senza programmi, di una misura basata sul noto, sull’organicità della persona (e si osservi che si tratta spesso di una Toscana piú vasta, secondo l’elogio trecentesco del Pecorone, coincidente piuttosto con tutto il nobile centro: «l’equilibrio è al centro, dove nel prendere il male e il bene, ha piú giuoco la discrezione»), su quel piccolo vantaggio concesso al sogno spesso accoppiato ad una vivissima fantasia.

La Toscana corrisponde alla sapienza delle favole esopiche modernizzate, quasi ripercorrendo una lunga tradizione di rifacimenti che va da Fedro, dall’Esopo volgarizzato per uno da Siena, a La Fontaine, Tommaseo, diverse voci di letteratura e di naturalezza; e una favoletta col suo titolo saporito si svolge con lo stesso gusto dell’organicità della vita e la stessa compitezza di proporzione assaporata: «Cielo e mare sono due infiniti, quasi due astrazioni, che male i toscani sopporterebbero. Ed ecco qui, ogni mezz’ora, ogni ora, chi naviga può appoggiare l’occhio o il ricordo sopra la costa di un’isola, o l’immagine, il verso d’un poeta. Civilissimo mare!...». Nelle favolette diventate toscane piú argutamente di quanto non fossero nei volgarizzamenti trecenteschi (e si noti l’insistenza su di un linguaggio non becero, ma popolaresco per una specie di permesso che lo scrittore si concede dall’andatura esopiana che vuole una radicale freschezza, su di un terreno di esperienza linguistica e morale paesana: «oh quell’omo!; leccucchiava; per la rabbia di non si poter vendicare; dammi bere» ecc. ecc.), se si toglie un certo Trilussa che ci dispiace e sbiadisce una naturale arguzia senza riposte ferocie seppure amare costatazioni («certe paci, certi uomini»), risalgono ad un’osservazione della vita, non tutta bella, ma tutta vita. Svolgono cosí una linea che vive soprattutto nell’epigramma, come rappresentazione non florida in un’aria fervida, in un epigramma senza unilateralità, con un colore non sfumato, ma sull’orlo di un je ne sais quoi domestico e intellettuale: «L’imprevisto che è la grazia suprema della favola. E neppure l’autore, dicendo, sa bene dove approderà». E certo in queste favole si impara una forma per ridar vita a sentimenti permeati in noi con i giorni che, insieme a certa inerzia del giudizio che può diventare vezzo, sí che lo denunceremo come il limite della critica pancraziana, produce, piú di qualsiasi gusto di patina, il tono poetico della sua pagina, il tono della saggezza di un tempo elementare fuori di ogni metafisica alterazione (v. Età dell’uomo, nell’Esopo moderno). Perciò Pancrazi ci si presenta, anche a costo di urtare suscettibilità di esteti, con la sua preoccupazione di piacere, di dare cose piacevoli, di tener conto del pubblico che non deve annoiarsi per elucubrazioni senza riferimento a interessi non suoi: e dato che l’interesse primo per Pancrazi è il gusto della vita, compito dello scrittore sarà anzitutto di accrescere tale piacere, di piegare la sua spontaneità alla spontaneità delle cose, all’utilità piacevole delle cose, di allargare il respiro di chi legge con un’aria sana e odorosa del suo profumo terreno e naturale. Cosí in questo edonismo non sempre altruistico («come mi sono divertito per parecchi mesi a sfare e a rifare le esopiche favolette»), ma asciutto e cosciente di una dolcezza anche intellettuale, nascono i propositi e le valutazioni: «Lettura nuova. Lettura anche piacevole? Qui è il punto». «La letteratura contemporanea che ha certamente molti vantaggi e molti meriti su quella che immediatamente la precedette, a detta del pubblico non ha in genere anche il merito di essere divertente», e nella sua estetica, il piacevole unendosi al contenuto poetico di un umano misurato e concreto hanno il posto di canoni difficilmente superabili, se non con l’adattamento ad essi di oggetti da loro diversi. Di qui nasce piú direttamente l’amore per l’Ottocento e i toscani, pur non sempre indissolubilmente congiunti (si veda per ciò nel recente Racconti e novelle dell’800 lo sforzo a comprendere gli scapigliati lombardi, l’esempio di un Camillo Boito), la costruzione di un tipo di scrittore toscano accuratamente liberato dalle noiose grettezze regionalistiche («dirò anche che in genere è falsa l’idea che i piú si fanno dello scrittore toscano: lieto e umorista a fior di pelle; burlettone e pronto alla risata o alla beffa») e ricondotto ad un principio di consolazione oltre il romanticismo nell’attività dello scrivere («trovano la loro pace nello scrivere») in una sorta di composto Dante-Giusti-Orazio, che riassume le qualità di un carattere virile e terreno, tutto nel presente, intelligente fino ai limiti taciuti della crudeltà, ma padrone di ridursi in uno scetticismo di pigrizia sicura, aderente ad una vita in cui le piú tenui e commosse vicende della natura sembrano nascere senza terrori e senza idillio sentimentale. «Nella nostra terra il cipresso non è un segno funerario, ricorre familiare e frequente, guida e avvicina l’occhio e il pensiero dalla casa all’orto, e qui al campo dell’ultima quiete». In questa presenza serena della morte sta per Pancrazi la tranquillità della vita e la singolare realtà degli scrittori toscani, specie quando essi, liberi dai riboboli e dal pettegolezzo accademico dei novellieri cinquecenteschi, ritornano alla semplicità, alla malinconia riposata di un Sacchetti o alla fermezza di un Guicciardini di cui, nella bella introduzione ai Ricordi, il critico sente perfino, in merito di questo atteggiamento senza rifiuti e senza enfatiche accettazioni, che «egli come pochi italiani ebbe in sé del cattolicesimo il gusto pesante del concreto e la tristezza originaria».

E parallelamente nell’Ottocento, meglio nel secondo Ottocento, egli trova realizzato, sopprimendo gli spunti decadenti come marginali ed estranei ad una linea veramente italiana, il suo ideale di letterato convinto e sereno, appassionato alle cose, ma non distratto dai programmi e dalla retorica dei problemi, amichevole e cauto anche nel fare scorrere il vino intero della sua botte casalinga. Per l’Ottocento c’è in Pancrazi una simpatia non semplicemente letteraria («un’età che ebbe com’ogni altra i suoi difetti e i suoi limiti, ma che, certo, fu eccezionalmente aperta e favorevole al pensiero disinteressato e alle lettere»), per una nozione di civiltà intera in cui il gusto delle lettere è misurato nel suo grado intimo di umanità generosa («il culto delle lettere che, tra tanti culti feroci e stupidi che accompagnano la nostra vita, è il piú gentile culto o il piú umano»). E certo nell’Ottocento (precisiamo ancora: nel secondo Ottocento, perché del grande secolo romantico Pancrazi non ci ha parlato, e semmai un estremo indizio di gusto riflesso dalla fin de siècle piú bonaria sui modi romiti e religiosi dell’idillio romantico potrebbe azzardarsi nel notare il risalto dato alle datazioni alcioniche con il santo del giorno nella abitudine leopardiana) il critico, senza programma, traccia una storia piú solida di molte sintesi se pur bisogna di piú precisi centri costruttivi.

Naturalmente lo scrittore di Pancrazi può vivere ottimamente anche tra i contemporanei purché osservi quella regola di intimo classicismo, di sostanziosità naturale che rifulge spesso piú idealizzata che realizzata negli scrittori specie toscani dell’Ottocento. Qui egli trova, attraverso il macchiaiolismo letterario e il verismo piú intimo, gli antenati degli autori che piú risuonano in simpatia col suo giudizio e che piú sembrano lontani dallo sviluppo della poetica analogistica. Strano però può sembrare che in questi sani scrittori dell’Ottocento, egli, con un fare tra compiacente e compiaciuto, indichi una loro odiernità che viene ad arricchire piú o meno arditamente la loro relativa e storica attualità: «Oggi che piacciono i romanzi fatti di discussioni... piacerà il De Meis», «Bresciani, stilista alla luce del Novecento», «Nievo precisa analisi (e psicanalisi) che molti ritengono cose soltanto d’oggi», «Cagna preannuncia i crepuscolari», ecc. ecc. e quasi a disfare la novità in motivo esistente concreto nella letteratura dell’altro ieri. E certo la sua critica non offre errori reazionari (Gatti, Betti, Gerace ecc. ecc.) come la sua scrittura non vagheggia modi antiquati e stonati. Egli ce l’ha con l’eccessiva autocritica, con l’astuzia intellettuale degli scrittori, con l’ermetismo e con la megalomania di linguaggi intraducibili al suo orecchio. «Certo questa febbre, questa incontentabilità, questo bisogno insaziato di avere di piú, di essere di piú, o almeno di sembrare di piú di quanto in effetto si è, è un male del tempo che ha attaccato tutte le forze della vita e anche la letteratura». C’è dunque una diagnosi che sempre giovanile (del ’20 è la prima affermazione, del ’24 è quest’altra: «Oggi non ci sono piú delle credenze o delle fedi; ci sono al massimo delle posizioni») permane però in fondo al suo apparente scetticismo, cui semmai hanno portato una smorfia di incredulità le pessime prove di certi convertiti al classicismo, che lo hanno convinto piuttosto di una immutabilità del vero scrittore sotto le scorze avveniristiche. Indubbiamente la letteratura piú sua termina con Gozzano («devo dire che Gozzano è l’ultimo poeta di cui so e ripeto volentieri intere poesie a memoria»), che indica non una reale frattura postgozzaniana, ma una coesistenza della linea nuova e di una linea che, pur moderna, per il gusto del decifrabile, della chiarezza carduccianamente intesa, non trova espressioni poetiche dopo Gozzano.

Perciò, anche se in definitiva si deve riconoscere, proprio in merito del suo rifiuto a credere in classificazioni di scuole e di poetiche, una volontà equanime di investigare la poesia dovunque si trovi, a cercare negli autori lontani dal canone della comprensibilità (comprensibilità di coerenza fantastica, ma insieme di riferimento logico) la disposizione letteraria, il giro della frase musicale o pensata, ma in ogni modo scritta, il valore tecnico, la mano dello scrittore anche se illustratore (ma sa ben distinguere i facili classicismi alla Pastonchi), si deve ammettere una chiusura naturale di fronte ai moderni e un loro generico riconoscimento di intellettualismo e a volte anche di fumisteria. Non mancano precise conferme di incompatibilità con l’ermetismo: «In troppi casi (cosa quasi assurda in un critico) io devo umilmente confessare a Ungaretti di non capire», e spiegazioni di fedeltà a liberazione dei sentimenti in canto sensibile, non «in schemi brevi e simbolici». Sí, non bisogna credere a tutte le sue affermazioni perché la sua animazione sa nascere anche a contatto di quelli che egli cosí poco amoroso di classificazione generalizza proprio coi nomi delle tendenze, ma il suo centro si sposta sempre verso un tipo di scrittura ottocentesca che egli amerebbe risentire nel suo sviluppo piú ortodosso. «Le cose riacquistano i giusti limiti e le loro proporzioni e, invece che per metafore e anacoluti, son chiamati, se Dio vuole, distesamente e col loro nome». Se l’opposizione alla letteratura d’«eccezione» e al «difficile» (donde la limitazione di Ungaretti e di Montale ai loro piú canori o prosastici estremi per una ricerca del realizzato che è fuori del vero realizzato simbolistico) costituisce un limite alle possibilità del critico, l’insieme colorisce di una tinta calda e onesta, i suoi pezzi e personalizza una sua fedeltà, rara, fuori delle gazzarre passatiste alla letteratura.

D’altra parte andando avanti con l’esperienza l’opposizione si è sfatta in un humour che alleggerisce bonario e senza astio l’esame dei contemporanei, le sue accuse perdono ogni carattere di avversione e non fanno mai scordare che Pancrazi è un vivo e presente scrittore contemporaneo. La primitiva polemica è diventata calma saggezza che si ripromette nel tempo un sicuro alleato nel rimettere a posto le proporzioni e ridar rilievo agli scrittori piú veri e riposati. E soprattutto caratteristica di Pancrazi è l’atteggiamento di pacata collaborazione con gli autori esaminati a rivelare il loro strumento conoscitivo, di risoluzione degli scatti difettosi in un discorso che li adegui senza decisamente denunciarli, di illuminazione laterale, nascosta che implica un lavoro socratico e insieme un’effettiva dubitosità cui non sfugge l’autore medesimo. C’è, è vero, una scelta voluta di autori da esaminare con simpatia («Quand’ho un amico orbo lo guardo di profilo» dice Joubert riportato a capo dei Ragguagli di Parnaso), ma c’è anche una originale deficienza di impeto critico: diremo che il lettore non vuole privarsi del suo piacere e che il critico non si sente impegnato dove manca il piacere del lettore. Perciò, vicino a un certo Croce di saggi a bozzetto (incastrato come per naturale integrazione nelle notizie che precedono i brani di Racconti e novelle dell’800), si ricorda di Panzacchi («i suoi saggi sono modelli di ciò che ha da essere, se vuol servire a qualcosa, la critica sui contemporanei») e di Serra verso una critica che riannodi le impressioni del lettore al materiale poetico. E c’è un sapore di un joubertismo toscanizzato privo dell’alone platonico e preromantico che rivela un’antica autorità dietro il fare di Pancrazi.

La sua critica cosí nasce non su filoni razionali fiorettati e guarniti, ma su sviluppi di una fantasia soda e pastosa, di prima mano e coerente, da aderenze spregiudicate al testo. A volte l’abitudine giornalistica che si è insinuata secondo la linea di minor resistenza e cioè secondo una certa cedevolezza ad un giuoco di soluzioni agevoli e scoppiettanti, lo porta alla trovata che può essere anche una trionfale via d’uscita, uno sbocco rapido e acceso dalla discussione in un sorriso che richiede assensi, ma troppo spesso un soverchio lustro d’immaginazione compiaciuta di una sua intelligenza. «Le idee si muovevano e si lasciavano scartare in poche righe, con la precisione secca di schede rimosse in una cassetta di biblioteca». Se tale processo entrato nell’ambito della simpatia produce a volte illusioni insostenibili (per un pezzo della Storia di Cristo, «si pensa al Giotto degli Scrovegni»), esso non ci interessa tanto alla soluzione e al giudizio finale, quanto alla posizione e piú alla vita del discorso che se ne svolge. Senza mai arrivare ad un puro pretesto di belle pagine, Pancrazi non fa sentire una urgenza critica quanto il piacere di dire, di sviluppare nel proprio paesaggio la lettura dei suoi autori. E senza che si possa indicare un vero abuso d’impressionismo, questa critica costruisce la sua prosa non nella pagina serrata e irsuta di molti critici contemporanei, in cui ogni breve grido della fantasia è trattenuto per valorizzazioni tra mistiche e autobiografiche, e neppure secondo la maniera tradizionale che attira l’immagine a lumeggiare il concetto, ma in una sorta di logica saporosa che spazieggia il tessuto, in un ragionamento fantasioso e pur concreto sin dalle sue radici che si occultano nel nobile ozio del lettore. Il quale è paziente e padrone, attaccato all’impegno delle gazzette e pur libero dalle riempiture necessarie delle costruzioni a priori, serio nel suo mestiere, ma al di sopra di esso, letterato conscio di quel rigore che la vera letteratura porta nella distinzione umana, ma condotto alla letteratura per il suo esempio di semplicità e concretezza, sí che si sente vicino ed oltre alla purezza di Serra: «In confronto alla critica di ieri e oggi (corrente), il primo carattere di Serra sta nel suo appartarsi di letterato coi letterati, nel suo astrarre rigoroso, ma come naturale ed istintivo da tutti gli argomenti e motivi che esulano dalla letteratura».

Per questa spontaneità del temperamento e civiltà del carattere, il lettore ci si presenta con determinazioni dell’intimo processo delle proprie operazioni che potrebbe costruire una analisi eterna della lettura nei suoi momenti, nelle sue scoperte, nelle sue ansie e consolazioni mentre ci avanza costatazioni che valgono piú delle formule sentenziose: «Nel Carducci di sedici anni senti già la testa quadra» (bonariamente si dice il massimo che si può dire della solidità cosí poco suggestiva, cosí poco polisensa della natura carducciana), «poeti come il Pascoli o il D’Annunzio trovarono nel Carducci una specie di scorciatoia verso la tradizione» (ed è la riduzione naturale della famosa influenza carducciana). E lo fa con una lingua che si nutre di voci naturali, di parole vive e letterarie in discreti limiti di tecnicismo, pronta a portare nell’aggettivo un’impressione che un’immagine sviluppata diluirebbe («versi bambagini» per Govoni), secondo una linea di decoro, non di purismo che vuol considerare nelle parole un peso, un volume, non un astratto simbolo ideografico. Lingua che in verità indica anche i confini delle sue possibilità critiche e adegua troppo spesso il dissimile da sé in un raddolcimento che altera il carattere vero dei testi (cosí Gozzano senza i crepuscolari, che ci insegna anche come la sua sfiducia nelle classificazioni scatti negativamente a contatto di effettivi stati d’animo programmatici, di approssimazioni culturali volute dagli stessi scrittori, sí che a non tener conto delle poetiche – tenendo poi conto dell’epoca, del costume in astratto – si rischia di trovare un’identità monotona senza caratteristiche storiche) e piú rifulge dove può indirizzare verso il proprio nucleo di concretezza gli scrittori che con la sua sensibilità simpatizzano, come quando corregge Baldini con Baldini-Pancrazi: «Noi stiamo per le donne vere, contro quelle fittizie, per le donne fatte in casa ecc.». Cosí anche si può notare quasi una misura predisposta che nei momenti piú fiacchi può coincidere con la misura dell’articolo giornalistico, ma che originalmente è dovuta a un’armonica predisposizione a saggiare l’autore entro i limiti delle sue capacità e non oltre, lungo le direttive aperte da indizi non realizzati. Accerta la civiltà dell’autore, il suo sapore, i come, non i perché di quella scrittura, ne rileva le cose vive come da un piccolo mondo che dell’altro di tutti isoli qualche frammento vivente ed organico, pesa una possibile antologia e non manca mai perciò di un tacito scandaglio del tempo che secca le mode e ravviva i colori classici. Se infine si vuole una riprova della unità pancraziana, tutte le considerazioni sulla sua critica ci portano come a suo capolavoro (da un lato estremo c’è la «lirica» di Pinocchio, dall’altro la «fantasia» dell’Intermezzo di autunno) a quel pezzo di prosa convinta ed ariosa che è la Licenza dello scrittore negli Scrittori italiani da Carducci a D’Annunzio: una specie di esame di coscienza, nei limiti della modestia del lettore, della compostezza che non sbilancia passioni, che si cerca un canto equilibrato tra cose e sentimenti, una confessione non davanti all’eterno, ma non priva di una sua solitudine malinconica: solo che solitudine, motivi fondi dell’animo vengono tenuti lontani dal primo piano e ricompaiono alleggeriti nelle cose, nel paesaggio (in fondo Pancrazi è soprattutto per il suo sentimento un poeta della natura, un devoto alle consolazioni che la natura dà a noi umani) come una brezza che comunica un fremito senza muovere le piante. Dallo spunto intelligente e leggermente prezioso delle quattro stagioni che si ritrovano tutte nelle giornate d’autunno, si snoda la descrizione delle minute e care abitudini del letterato che trovano il loro compimento di mania dolce, non libresca, nella silente girata in bicicletta di notte lungo i muri delle case campagnole, dove il vecchio è risceso in cantina, per dare ancora una stretta alle vinacce. Ed è davvero questa l’equivalenza delle intenzioni e degli amori del critico: il lavoro serio, ma animato da un «fervorino come un represso contento» che agisce da lievito odoroso in ogni suo articolo, l’amore del libro, ma perché testimonia un contatto, una ricerca della natura che attacca ogni pretesto ideale ad un’espressione della vita naturale, che collega ogni possibilità metafisica ad una sensazione fisica, ogni lettura e comprensione al piacere di un’umanità non barbara, non preziosa, discreta, civile e casalinga.